“La riproposta di
Utopia selvaggia non corrisponde dunque a una sorta di nostalgico revival della
letteratura terzomondista, genere narrativo che fu in voga alla metà del secolo
scorso, quanto piuttosto al bisogno, sempre più urgente, di riprogettare un
nuovo modello di futuro che non rifiuti l’apporto fecondo delle culture
indigene.” ‒
Giancorrado Barozzi
Storico di formazione, Giancorrado
Barozzi dal 1986 al 2000 ha diretto l'attività scientifica dell'Istituto
Mantovano di Storia Contemporanea. Per conto della Regione Lombardia e di altri
Enti ha realizzato ricerche nei campi della storia sociale, delle tradizioni
del lavoro e della narrativa orale.
È direttore della
collana "Il Pasto Nudo, assaggi di antropologia" per la Negretto
Editore con la quale ha pubblicato "Cartiera Burgo. Storie di operai,
tecnici e imprenditori nella Mantova del Novecento" e nel 2013 “Altruismo
e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin”, saggio che presenta il Mutual Aid del
filosofo e scienziato russo Kropotkin ed il Digest della scrittrice americana
Miriam Allen deFord.
Giancorrado Barozzi è stato molto disponibile nel rispondere
ad alcune domande per presentare la nuova pubblicazione “Utopia selvaggia ‒ Saudade dell’innocenza perduta. Una fiaba”
romanzo del famoso sociologo, antropologo, scrittore, educatore ed uomo
politico brasiliano Darcy Ribeiro
(Montes Claros – Minas Gerais 26-10-1922/ Brasilia 17-2-1997), in libreria dal
1 maggio 2019 nella collana editoriale “Il Pasto Nudo” con la nuova traduzione
ad opera di Katia Zornetta.
A.M.: Giancorrado,
ci siamo incontrati una prima volta per cercar di esporre ai lettori le
tematiche della pubblicazione “Altruismo e cooperazione in Pëtr A. Kropotkin”
riuscendo a raccontare la storia del grande filosofo e scienziato russo, quasi
totalmente sconosciuto in Italia, e che a causa “delle sue prese di posizione politiche libertarie fu tacciato, sia da
destra che da sinistra, di essere un utopista”. Che cosa comporta per un
intellettuale/filosofo l’“essere utopista”?
Giancorrado Barozzi: Esercitare
il pensiero utopico comporta degli enormi vantaggi, qualora ci si limiti a
restare solo nel campo delle idee, essi si accompagnano però, va anche detto, a
degli inevitabili svantaggi se si provi a calare queste idee sul piano pratico.
Uno dei principali vantaggi del pensiero utopico consiste nell’assoluta libertà
di creare ipotesi di «mondi possibili», infinitamente migliori di questo, senza
dover sottostare ai condizionamenti imposti dalla «realtà sociale» del proprio
tempo. Tra gli svantaggi va invece messa in conto la scettica accoglienza della
maggioranza dell’uditorio nei confronti delle idee professate dall’«utopista».
Atteggiamento che, nel caso di non immediata desistenza da parte del portatore
di pensiero utopico, viene ad assumere tratti persecutori. Nel passato ne
fecero le spese quegli utopisti che, non rassegnandosi a serbare solo per sé le
proprie idee, cercarono d’istituire un dialogo con la società circostante.
Penso a Socrate, a Gesù Cristo e a Thomas More, il quale nel 1516 ebbe, tra
l’altro, l’indubbio merito d’avere coniato il termine «utopia», anche se egli,
prima di essere suppliziato, riuscì a sua volta a mandare sul rogo alcuni «eretici»
che giudicò essere più «utopisti» di lui.
Viste le tragiche
sorti toccate ai primi filosofi e profeti dell’utopia, i successivi sviluppi di
questa forma di pensiero trovarono riparo in un porto più sicuro: quello della
creazione letteraria. Penso, ad esempio, alle «utopie» ecologiche e femministe
di un’autrice contemporanea dalla fervida fantasia, come Ursula Le Guin, figlia
dell’antropologo Alfred Kroeber, morta di recente (ma il cui decesso è almeno
potuto avvenire in tarda età e nel proprio letto), o anche al libro Utopia selvaggia di Darcy Ribeiro,
romanzo-saggio scritto da un altro inguaribile «sognatore» il quale tuttavia fu
costretto a subire, a causa delle proprie idee, un lungo periodo di esilio
lontano dal suo paese, il Brasile.
A.M.: Dalla Russia
al Brasile il passo è breve soprattutto se ci si muove nel terreno dell’οὐ-τόπος.
E qui entriamo nel vivo della nostra intervista: perché è stato doveroso
pubblicare una nuova traduzione del romanzo “Utopia selvaggia” dello scrittore
ed antropologo Darcy Ribeiro?
Giancorrado Barozzi: Di
questi tempi, segnati dalla globalizzazione e dall’universale dominio delle
nuove tecnologie, ritengo utile, e addirittura necessario, tornare a parlare
d’«utopia», nel senso che a questo termine attribuirono quanti, in passato,
osarono sfidare a viso aperto il «senso comune» della loro epoca nel tentativo
d’aprire la strada ad altri metodi, più solidali e compassionevoli, di
convivenza sociale e di simbiosi tra l’uomo e l’ambiente naturale. Nel suo
terzo romanzo, Ribeiro ha osato indagare appunto l’eventualità di questa specie
d’«utopia», guardando alle culture amazzoniche in via d’estinzione,
nell’intento di recuperare da loro tecniche materiali e valori spirituali da
riproporre come viatico del grave malessere che affligge il mondo urbano e
civilizzato. Utopia selvaggia, fu
composto da Ribeiro agli inizi degli anni ’80 del Novecento, ma la quarantina
d’anni trascorsi da allora non ha vanificato le ragioni di fondo del suo
appello. Anziché avviarsi sulla via d’un operoso cambiamento di rotta,
l’umanità dei paesi post-industriali sembra essersi infatti inoltrata ancor più
lungo una china, già perfettamente intuita da Ribeiro, che conduce al collasso
ecologico del pianeta e alla standardizzazione delle sue forme di vita e di
cultura. La riproposta di Utopia
selvaggia non corrisponde dunque a una sorta di nostalgico revival della letteratura terzomondista,
genere narrativo che fu in voga alla metà del secolo scorso, quanto piuttosto
al bisogno, sempre più urgente, di riprogettare un nuovo modello di futuro che
non rifiuti l’apporto fecondo delle culture indigene. Per millenni quelle
culture furono il valido presidio d’un equilibro ecologico tra l’uomo e
l’ambiente, specie nelle aree di maggiore importanza vitale per la sopravvivenza
della Madre Terra (come il bacino amazzonico e la foresta pluviale). Equilibrio
che oggi viene invece compromesso da una dissennata politica portata avanti da
quei governanti «populisti», alla Bolsonaro (per intenderci, qualora si pensi
al Brasile), che stanno programmando l’esaurimento del polmone verde del nostro
pianeta, senza curarsi in alcun modo di garantire alle future generazioni la
salubrità dell’aria, nonché di proteggere la varietà di specie biologiche e di
culture umane a tutt’oggi ancora presenti nel mondo «selvatico».
Sono queste le
motivazioni di fondo, e le urgenze, che hanno spinto l’editore Negretto (da
sempre sensibile a tali «ragioni») a riproporre ai nuovi lettori l’«utopico»
appello già lanciato, tempo fa, dall’antropologo brasiliano con questo suo
romanzo ambientato ai Tropici. I linguisti ci hanno inoltre insegnato che, al
passaggio d’ogni generazione, le lingue vanno incontro a mutazioni profonde,
perciò si è voluta dotare la nuova edizione del libro anche d’una nuova
traduzione. Su mio consiglio, l’Editore l’ha affidata a una giovane
traduttrice, Katia Zornetta, la quale, nei propri studi universitari compiuti a
Venezia e in Brasile, ebbe modo di conoscere di persona la precedente
traduttrice in lingua italiana di tutti i romanzi di Ribeiro, Daniela Ferioli,
una persona umanamente e professionalmente straordinaria purtroppo venuta a
mancare nel 2004.
La traduzione realizzata
da Katia, pur dimostrandosi rispettosa delle soluzioni linguistiche già
adottate da Ferioli e da lei messe a punto grazie al suo diretto confronto con
l’autore del romanzo, del quale fu amica oltre che traduttrice, appare però ancor
più innovativa sul piano linguistico. Katia ha infatti realizzato un inedito
mix lessicale che mantiene inalterato, nel corpo stesso della traduzione, un
gran numero di termini provenienti delle lingue e culture amazzoniche: nomi di
piante e di animali tipici della foresta pluviale derivati dalle tassonomie
etnobotaniche ed etnozoologiche delle popolazioni indigene, nomi di oggetti
d’uso profano o rituale propri delle varie tribù stanziate lungo le rive del
Rio delle Amazzoni visitate da Ribeiro negli anni del suo giovanile apprendistato
«sul campo» come antropologo. La ricchezza culturale di questo «lessico
selvaggio» riaffiora ora pressoché intatta in questa nuova traduzione del
romanzo, rendendo piena giustizia al paziente recupero di centinaia di termini
«etnici» operato da Darcy Ribeiro al fine di spargere nuove spezie tropicali
sull’idioma brasil-portoghese. L’adozione anche in traduzione italiana d’un
simile «meticciato» linguistico corrisponde a una nuova sensibilità
linguistica, orientata a favore di un consapevole recupero delle lingue
minoritarie prossime all’estinzione; sensibilità che, una trentina d’anni fa,
al tempo cioè delle traduzioni dei romanzi di Ribeiro realizzate da Daniela
Ferioli, non aveva ancora trovato qui in Italia un terreno fecondo.
A.M.: Nella prefazione
descrivi il protagonista del romanzo “Un
po’ Amleto e un po’ Socrate, Pitum/Orelhão, grazie a questa sua predisposizione
al saper porre (e porsi) domande, si dimostra in fin dei conti assai meno
sprovveduto di quanti intorno a lui vivono in modo animalesco, seguendo
ciecamente antiche tradizioni (le icamiabas/amazzoni), o di chi appare dominato
da una qualsiasi ideologia, sia essa del progresso (le suore missionarie) o
dell’atavismo (lo sciamano Cunhãmbebe).” “Utopia selvaggia” è un romanzo
antropologico?
Gancorrado Barozzi: Più
che un «romanzo antropologico», sarei tentato (e non si tratta di un gioco di
parole) di definire Utopia selvaggia
un’«antropologia romanzesca». È stato proprio per questo motivo che ho voluto
includere il libro di Ribeiro nella collana «Il Pasto Nudo» delle edizioni
Negretto. Questa collana, che dirigo da una decina d’anni, si propone
d’avvicinare infatti lettori nuovi e non specialisti alla conoscenza
antropologica e alle scienze umane, facendo appello, come sta scritto nella
quarta di copertina di ogni volume della collana, a «testi che parlino
dell’uomo, dei suoi problemi, del suo ambiente e delle sue culture...». Tutto
ciò mi pare sia stato compendiato alla perfezione in questo bizzarro frutto
(autentica primizia) d’«antropologia romanzesca». Ribeiro ebbe all’Università
di San Paolo del Brasile un’ottima formazione socio-antropologica; egli compì
poi una serie di ricerche etno-antropologiche sul campo presso varie tribù del
bacino amazzonico; nel corso della sua lunga e poliedrica carriera ebbe inoltre
modo di pubblicare numerosi testi accademici d’argomento antropologico,
ispirati alla corrente neo-evoluzionista dell’antropologia: un indirizzo
disciplinare nato negli Stati Uniti a partire dagli anni Quaranta del Novecento,
che traeva ispirazione dalle scoperte scientifiche compiute nel XIX secolo da
Charles Darwin e dagli studi antropologici realizzati sempre nell’Ottocento da
Leslie Henry Morgan. In Utopia selvaggia
Ribeiro osa però oltrepassare i tradizionali confini della sua disciplina. Il
suo è un anomalo romanzo, dotato di tutti i requisiti d’una fiction post-moderna: ha un protagonista
«senza qualità» sballottato da eventi che non dipendono dalla sua volontà; è
ambientato in un «mondo selvaggio» che vagamente ricorda l’isola in cui
naufragò Robinson Crusoe; ha un cast d’assurdi personaggi degni d’una kermesse
carnevalesca... Eppure, nonostante questa profusione d’ingredienti romanzeschi,
Utopia selvaggia è pur sempre, e così
va intesa, una delle sperimentazioni
ante-litteram più ardite, e forse più
riuscite, di quel genere di «scrittura antropologica» che trovò la propria
definizione teorica nel corso di un seminario scientifico tenuto a Santa Fe nei
primi anni ’80 del Novecento (è da sottolineare questa, non casuale,
coincidenza cronologica). In quel
seminario un gruppo di giovani antropologi osò proclamare la necessità di
passare dalla classica antropologia descrittiva a una nuova forma di «scrittura
antropologica» ove l’autore (fattosi «nudo» al cospetto del «selvaggio» da lui
stesso osservato) prendesse a dialogare alla pari con i nativi, sino al punto
di rinunciare alla propria «autorità etnografica». Non è questa la sede per
valutare con quali risultati queste intenzioni manifestate dai partecipanti al
seminario di Santa Fe siano state tradotte in pratica. Per tornare a Ribeiro,
mi viene tuttavia spontaneo pensare che molte pagine di Utopia selvaggia espressero al meglio, e con un grande savoir faire, la gran parte delle
perorazioni di principio formulate dagli antropologi post-moderni partecipanti
al seminario Writing Cultures
tenutosi a Santa Fe. Perorazioni che invece, quei giovani antropologi yankee attivi nelle Università degli USA
non riuscirono a sviluppare oltre lo stadio di abbozzo. Con la sua formidabile capacità
di captare, anche a lunghe distanze, standosene sulle coste del Brasile, il
vento che soffiava dall’altra parte del continente, Ribeiro ci ha invece
lasciato, con Utopia selvaggia, un
maturo esempio di scrittura antropologica sperimentale. Con la sapiente
leggerezza della raggiunta maturità di uomo e d’autore (descritta in modo
toccante in un capitolo del bel romanzo brasiliano di Fernanda Torres, Fine), Ribeiro ha insomma saputo
compiere nel concreto quella «sovversione» dell’antropologia classica
astrattamente solo ipotizzata dai suoi più giovani colleghi statunitensi.
Per evitare equivoci,
devo qui precisare che l’«antropologia romanzesca» ha ben poco a che vedere col
genere letterario del «romanzo antropologico». Queste due categorie non vanno assolutamente
confuse. Nell’«antropologia romanzesca» a prevalere è sempre l’indagine
antropologica, anche se mostra alcune analogie formali con l’opera letteraria.
La discriminante di base tra questi due generi sta nel fatto che, mentre un
testo d’«antropologia romanzesca» può essere composto unicamente da un autore
che (come Ribeiro) abbia una solida formazione antropologica e la sappia
dimostrare nel racconto (articolando, ad esempio, in forma dialogica il
congegno del plot e/o ricorrendo a
ben precise «tecniche escussive» per tratteggiare il carattere dei personaggi),
nel caso del «romanzo antropologico», l’autore invece, anche se sta narrando
dell’incontro tra un osservatore estraneo e un gruppo di nativi, fa
semplicemente appello a una forma d’inventio
letteraria, e non a un metodo d’indagine antropologico. Un ottimo esempio di «romanzo
antropologico» è, ad esempio, il libro di Lily King, Euforia, dove si narrano le vicende del triangolo amoroso
verificatosi, negli anni ’30 del Novecento, fra i protagonisti d’una serie
incrociata di ricerche «sul campo» in Nuova Guinea, i quali adombrano, in modo volutamente
scoperto, le personalità di Margaret Mead, Reo Fortune e Gregory Bateson. Pur
ispirandosi ad autentici «mostri sacri» dell’antropologia, Lily King, esperta
in creative writing, fa muovere e
agire i protagonisti del suo romanzo come le pedine d’un comune intrigo
sentimentale, appiattendo sullo sfondo (quale esotico fondale), sia il
paesaggio «umano» ove si svolge la vicenda che le spinose questioni sollevate
dalla ricerca etnografica le quali dovettero assillare, ancor più delle
romanzesche «faccende di cuore», i tre reali ricercatori che l’autrice prese a
modello. Ne è uscito un valido prodotto di consumo che non ha tuttavia nulla a
che vedere con quegli autentici capolavori d’«antropologia romanzesca» che
furono prodotti da autentici antropologi di professione, come Darcy Ribeiro o
Claude Lévi-Strauss.
A.M.: Possiamo
affermare senza alcuna ombra di dubbio che Darcy Ribeiro ha inaugurato un sistema
di analisi della società sudamericana riuscendo nel difficile allontanamento
dai condizionamenti europei e nordamericani?
Giancorrado Barozzi: Storicizzando,
si può tranquillamente affermare che Darcy Ribeiro compì, specie durante gli
anni del suo esilio (tra la seconda metà dei ’60 e la prima metà dei ’70 del
Novecento), un importante tentativo di reinterpretare la storia sociale
dell’intero continente sud-americano. Come egli stesso ammise, già allora
quella sua generosa fatica mostrava tuttavia, e a distanza di circa mezzo
secolo li dimostra ancor più, alcuni limiti, i quali consistono, in sostanza,
nel volontario rifiuto da parte dell’autore di avvalersi di strumenti
preparatori messi a punto da altri studiosi latino-americani per interpretare
quella «società dell’insoddisfazione» che Ribeiro contrappose a quella dei
popoli «soddisfatti» dell’Occidente. Una nota, collocata da Ribeiro a pie’ di
pagina nell’introduzione del primo dei suoi tre ponderosi volumi su Le Americhe
e la civilità, escludeva infatti, in modo tranchant, qualsiasi possibilità di
trarre un effettivo giovamento dagli esiti di quelle che egli stesso definì:
«le interpretazioni classiche dell’America Latina». A suo dire: «esse non
giungono ad articolare una teoria del mutamento sociale», e una rapidissima,
sintetica rassegna bastò a Ribeiro per liquidare in modo definitivo tutte quante
queste «interpretazioni»:
«Partendo da una posizione fatalistica, alcune di esse attribuiscono
l’arretratezza al clima o alla razza (Sarmiento 1915; Bunge 1903; Oliveira
Viana 1952; Arguedas 1937) oppure a qualità negative del colonizzatore (Bomfim
1929; Ingenieros 1913; Ramos 1951). Altri discutono tali determinismi (Alberdi
1943; Cunha 1911; Freyre 1954; Buarque de Hollanda 1956; Estrada 1933; Paz 1950;
Murena 1964), senza che tuttavia oppongano ad essi nessuna teoria conseguente» [Ribeiro,
1975, p. 6 nota 1].
Dopo avere
omericamente bruciato alle proprie spalle tutte le «navi» da guerra uscite dai
cantieri allestiti da altri autori latino-americani, Ribeiro si accinse a
compiere (in solitudine) un compito gigantesco, superiore alle forze di un
qualsiasi singolo studioso. Ragione per cui, nel corso di questa sua improba
fatica egli non poté fare altro che chiamare in proprio soccorso una nuova
«flotta». Fuor di metafora, dopo avere rifiutando di riconoscere i suoi
legittimi «padri» latino-americani, Ribeiro andò in cerca di nuovi «padrini».
Fortunatamente li trovò alzando i propri
occhi verso il Nord-America. Tutti i libri che egli scrisse in quel periodo
risentono infatti dell’influsso esercitato su di lui dalla scuola statunitense
d’antropologia neo-evoluzionista. Se dunque, a parole, Ribeiro ebbe a criticare
la «letteratura nominalmente scientifica
sulla dinamica sociale, prodotta soprattutto dai paesi prosperi e caratterizzata
dal loro scoraggiamento e conservatorismo», rivolgendo ad essa l’accusa di
compiere «mistificazioni destinate a
sostituire la saggistica corrispondente alla mentalità arcaica con un discorso
sofisticato, ma ugualmente conformistico» (Ribeiro, 1975, p. 44); nei
fatti, egli finì invece con l’adottare come linee guida dei propri studi sul Processo civilizzatore (1968) e su Le Americhe e la civiltà (1969-1973)
metodi e concetti mediati dal classico schema evoluzionistico dello sviluppo
delle società già elaborato, nel lontano 1877, dall’avvocato e antropologo
statunitense Lewis Henry Morgan; schema sfumato, intorno alla metà del
Novecento, in direzione «multilineare» da una compagine (minoritaria) di
brillanti antropologi sociali formatisi, sempre negli Stati Uniti, in aperta
polemica col «culturalismo relativistico» della scuola di Franz Boas. E avvenne
così che Ribeiro, da fiero oppositore degli antropologi yankee, si ritrovò invece ad applicare la lezione ricavata da quel
gruppo d’antropologi statunitensi che, come lui, pure avversarono le posizioni
«antievoluzionistiche» di Franz Boas e dei suoi allievi (Ruth Benedict,
Margaret Mead, Alfred Kroeber, ecc.). Va in ogni caso riconosciuto a Ribeiro il
fatto che la sua adesione alle posizioni neo-evoluzioniste lo portò a sfuggire
ai condizionamenti del main stream
rappresentato in campo antropologico dalla scuola di «Cultura e Personalità» e
dal «Relativismo Culturale», le cui teorie si erano diffuse dall’America
Settentrionale a quasi tutto il mondo occidentale (con l’unica eccezione del
«funzionalismo» allora regnante nell’antropologia britannica).
Nell’appoggiarsi alla
corrente neo-evoluzionista, Ribeiro perse però, purtroppo, di vista le novità
più significative che, proprio in quel periodo, stavano emergendo altrove nel
campo degli studi antropologici. Mi riferisco, in particolare, alla concezione
strutturalista dell’antropologica elaborata da Claude Lévi-Strauss, il quale
era venuto anch’egli (prima di Ribeiro) a diretto contatto con le tribù
amazzoniche, rimanendo contagiato dall’insospettata ricchezza dei loro valori
simbolici, e in seguito prese a dedicarsi allo studio dei rapporti di
parentela, del totemismo e dei miti indigeni. Nei confronti dello
«strutturalismo antropologico» e del suo massimo esponente, Ribeiro mantenne a
lungo un atteggiamento d’ostinato distacco, sconfinante in certo qual senso con
l’incomprensione. Egli ritenne infatti che quella dello strutturalismo fosse
soltanto una tra le tante mode «nominalmente
scientifiche», alimentate dal ceto intellettuale dei «paesi prosperi», per mascherare il loro sostanziale «conservatorismo».
Solo negli anni della raggiunta maturità, allorché, placati i giovanili furori
della militanza politica e dell’intransigenza neo-evoluzionistica, una nuova
forma di pacata saggezza venne a dargli conforto, Ribeiro si risolse a
intraprendere un fecondo dialogo a distanza con l’opera di Lévi-Strauss e, in
particolare, con quel capolavoro assoluto d’«antropologia romanzesca» che è Tristi Tropici. Solo negli anni ’80,
deposti i bagagli dell’esule e le armi dialettiche del rivoluzionario
terzomondista, l’autore brasiliano riuscirà dunque a creare, con Utopia selvaggia, la sua garbata,
pirotecnica risposta ai Tristi Tropici
di Lévi-Strauss. Questo terzo romanzo scritto da Ribeiro altro non è, a ben
vedere, che il suo deferente omaggio a quel mondo amazzonico gioioso e
disinibito, felicemente carico di primordiale, travolgente energia che
l’antropologo e filosofo francese aveva invece mestamente smorzato di tono
narrando, nel proprio memoriale autobiografico, dei contatti avuti con le genti
e la natura di quello stesso ambiente tropicale, che egli (con gli occhi
dell’esule europeo) vide invece appannato da un impalpabile velo di struggente
malinconia. Questi due inarrivabili esempi d’«antropologia romanzesca»
composti, ad alcuni decenni di distanza, da Claude Lévi-Strauss e da Darcy
Ribeiro, andrebbero letti in parallelo, per poter cogliere, attraverso il loro
serrato confronto, ogni aspetto della varia e sempre mutevole realtà
amazzonica.
A.M.: In
un’intervista rilasciata poco prima della sua morte a Luís Donisete Benzi
Grupioni e Maria Denise Fajardo Grupioni, Ribeiro dichiara a proposito della
necessaria tutela per gli indios “La
tradizione liberale, in nome della libertà, ordinò che gli indiani fossero
trattati alla pari, così si stabilì con gli indiani del Perù, del Messico, in
modo tale da renderli liberi di vendere la terra che avevano, ma è capitato
troppo spesso che qualcuno comprasse quella terra per un bottiglia di rum.
Quindi qui [in Brasile] la legislazione è totalmente nuova, e conferisce all'Indio
un'eguaglianza relativa, assicurandogli tutti i diritti che ha il cittadino
ordinario, senza imporre oneri. Gli dà un diritto di cittadinanza, ma
stabilisce una tutela che apparentemente sarebbe offensiva, perché paragona
l'indiano ad un minore, ma questa eguaglianza relativa non è stata fatta per
offenderli, al contrario, è stata pensata per preservare la sua terra.”
Giancorrado Barozzi: La
riposta data da Ribeiro ai suoi intervistatori ripropone il tema della
posizione politica da assumere nei confronti della «libertà» e dei «diritti»
delle popolazioni native del Brasile e anche di quelle di tutti quanti gli
altri paesi che presentino analoghe complessità in campo sociale. Da politico
riformatore e pragmatico quale egli fu, Ribeiro espresse qui un principio che, a prima vista, parrebbe stridere con
un’astratta applicazione della libertà politica e con l’affermazione di una
piena autonomia giuridica da accordare agli indigeni che ancora abitano e si
procacciano da vivere nella foresta pluviale. Ribeiro formulò qui invece un
ragionamento perfettamente logico e conseguente alla sua impostazione
evoluzionistica in campo antropologico, tracciata, sin dal XIX secolo, dal suo
più autentico «maestro»: Lewis Henry Morgan. In una pagina del trattato scritto
da quest’autore, La società antica,
opera molto apprezzata ‒ ai suoi tempi ‒ anche da Marx ed Enges, Morgan segnalò il fatto che «varie tribù e nazioni, presenti sullo stesso
continente, e perfino appartenenti alla stessa famiglia linguistica, si trovino
a vivere ‒ nello stesso momento ‒ in condizioni differenti» [Morgan, 19813, p. 9] e che a
ciascuna di queste «condizioni» veniva a corrispondere «una sua peculiare cultura e (...) un modo di vita che più o meno
specificatamente gli appartiene» [ibidem].
Proprio il rispetto di queste «differenti condizioni», già sancite da Morgan,
consigliò a Ribeiro la proposta politica di graduare la concessione delle
«libertà giuridiche» a quegli strati della popolazione del Brasile che ancora
vivevano a uno stadio evolutivo che ignorava il senso e il valore del concetto
giuridico di proprietà. Concedere agli indigeni la libertà incondizionata di
stipulare contratti di compra-vendita sarebbe stato come, disse Ribeiro,
attribuire questo stesso potere a un minorenne. L’«eguaglianza relativa»,
invocata dal «nostro» autore, non funge dunque in questi casi da stigma
sociale, ma ‒ al
contrario ‒ serve
da garanzia e da reale tutela degli inalienabili diritti di una fascia di
popolazione brasiliana, rimasta ferma, per dirla alla Morgan, a uno dei primi
stadi di sviluppo sociale.
Certo, qualcuno potrà
obiettare (e, ahimè, lo si sta facendo proprio ai nostri giorni in un Brasile
che non è più quello utopico e «riformista» di Ribeiro, ma quello distopico e
«populista» di Bolsonaro) che dai tempi di L. H. Morgan, e dei suoi estimatori
Marx ed Engels, molta acqua è passata sotto i ponti. La modernizzazione esige
che le tappe del progresso vengano accelerate il più possibile, senza curarsi
di attendere che quanti sono rimasti indietro nella scala dello sviluppo
sociale si decidano da sé a compiere un balzo avanti. A supporto di queste
argomentazioni opera inoltre tutta una pletora d’accademici, finanziati da
«qualcuno», che da decenni cercano di smontare, pezzo per pezzo, con
scientifica acribia, ogni residuo tassello della complessa impalcatura
«evoluzionistica» elaborata da Morgan e restaurata (a ogni colpo inferto dagli
avversari) dagli antropologi neo-evoluzionisti.
La partita è ancora
incerta, ma questa riproposta di Utopia
selvaggia di Ribeiro non lascerà, credo, alcun dubbio ai suoi lettori da
che parte stare.
A.M.: Perché
oggi, in Italia ed Europa, abbiamo bisogno di leggere opere come “Utopia
selvaggia” e conoscere uomini come Darcy Ribeiro? Quanto siamo distanti
dall’idea d’integrazione e di protezione delle culture minoritarie?
Giancorrado Barozzi: Penso
di avere in parte già risposto alla tua domanda, vorrei però ribadire il
concetto che, per sostenere la protezione delle culture indigene e minoritarie,
preziose custodi dell’equilibrio ecologico mondiale, converrà guardarsi dalla
smania della loro integrazione a tutti i costi. Dietro la parola «integrazione»
talora possono occultarsi delle pessime intenzioni, quali ad esempio: rendere
omogenee società altrimenti complesse; ridurre o eliminare del tutto ogni
differenza in ambito culturale (acculturazione/deculturazione), economico
(egualitarismo) o sociale (conformismo). Va da sé che non sono di certo questi
i tipi d’«integrazione» da sostenere. Ogni volta che una comunità si propone
d’integrare qualcun’altro, occorre pensare, molto seriamente, alle eventuali
conseguenze (talvolta disastrose)
che questo processo, se compiuto senza le opportune cautele, potrebbe
innescare. Ciò non significa, ovviamente, essere fautori della «segregazione»,
ma non bisogna far sì che il verbo «integrare» diventi un sinonimo di
«segregare». In Utopia selvaggia,
Ribeiro ridicolizza un esempio d’integrazione fallimentare: la forzata
alfabetizzazione degli indigeni adulti compiuta dalle monache missionarie nel
seno di una tribù, in origine analfabeta, stanziata nella foresta pluviale. La
sostituzione di una cultura orale con una nuova forma di trasmissione del
sapere fondata invece in prevalenza sulla scrittura e la lettura ha
storicamente comportato, anche nel «nostro» mondo occidentale, fondamentali
mutamenti che hanno profondamente modificato gli assetti della vita sociale,
recando con sé anche forme d’esclusione e promozioni di élites privilegiate in
ambito culturale, religioso, sociale e/o politico. Così, quando in un capitolo
di Utopia selvaggia l’autore sembra
semplicemente compiacersi a descrivere la caotica confusione derivante
dall’alfabetizzazione dei membri adulti di un villaggio amazzonico introdotta
dalle monache, appare chiaro che egli, in realtà, sta mettendoci in guardia dal
tentare incauti esperimenti socio-culturali di questo genere.
A.M.: Com’è
andata questa pubblicazione con la casa editrice Negretto Editore? Hai
incontrato difficoltà? La consiglieresti?
Giancorrado Barozzi: È
ormai da parecchi anni che collaboro con questo Editore, che conosco di persona
sin dai lontani tempi dei nostri comuni studi classici al Liceo «Virgilio» di
Mantova, dove frequentavamo classi parallele. Si tratta di un «piccolo
editore», ma ha dimostrato di avere coraggio da vendere: pensa che ha osato
iniziare la sua avventura imprenditoriale esattamente nel periodo in cui la
maggior parte dei piccoli editori, anche di dimensioni maggiori della sua
impresa, stavano chiudendo i battenti a causa della crisi economica. «Remare
contro corrente» mi pare sia il motto che si addice a questa casa editrice. Il
segreto del successo di Negretto Editore (perché, per un’impresa culturale
«pura», già il fatto di riuscire a sopravvivere di questi tempi è una
dimostrazione di successo) sta nell’estrema oculatezza con la quale egli sta
scegliendo le pubblicazioni da mettere in cantiere e da promuovere. Dà alle
stampe solo pochi titoli all’anno, unicamente quelli in cui l’editore «crede»
fino in fondo, ma questa sua parsimonia gli ha consentito, nell’attuale giungla
editoriale, di rimanere presente sul mercato e di farsi apprezzare per la
qualità delle sue proposte.
Quanto all’imminente
pubblicazione del libro di Darcy Ribeiro, posso dire che l’Editore ha accolto
con favore la mia proposta di pubblicare un autore brasiliano anche per il
fatto che, da alcuni anni, egli sta intrattenendo personali contatti con quel
paese e, in particolare, con alcuni protagonisti del vivace panorama culturale
di Rio de Janeiro. Proprio in virtù di questi contatti, Negretto è riuscito a
stipulare un importante accordo con la Fondazione Ribeiro, che ha sede a Rio,
per il rilancio in Italia delle opere di questo autore (un autentico «classico»
del Novecento, tutto da riscoprire).
L’Editore ha inoltre
accettato anche la mia proposta d’affidare la nuova traduzione di Utopia selvaggia a una giovane promessa,
Katia Zornetta, laureatasi presso un ateneo del Brasile discutendo proprio una
tesi sui contatti tra Ribeiro e la cultura italiana. Anche con lei, la
collaborazione, che si è rivelata piuttosto intensa, sebbene condotta sempre a
distanza, ha dato esiti molto soddisfacenti sul piano linguistico e culturale.
Per esperienza so che non è facile trovare in Italia un traduttore che abbia la
pazienza e l’umiltà di approfondire le ragioni delle scelte espressive adottate
da un autore straniero per restituirle, con lo stesso grado d’intensità, nella
nostra lingua. Katia, pure essendo con questo lavoro alla sua prima prova
professionale, è riuscita tuttavia alla perfezione nell’intento, osando anche
proporre proprie soluzioni traduttologiche
fortemente innovative ed orientate a una sorta di «meticciato» linguistico.
Opzioni al passo coi tempi, ma che
in passato (ai tempi della prima edizione Einaudi di questa stessa opera)
sarebbero state impensabili. Ora la parola passerà, com’è giusto che sia, ai
lettori, i quali spero vogliano premiare l’impegno messo da tutta quanta la
squadra attivata da Negretto Editore per la realizzazione di questa importante
proposta culturale.
A.M.: Abbiamo
iniziato con l’utopia russa, proseguito con quella brasiliana e di sicuro
possiamo chiudere con quella italiana. Fabrizio De André e “La domenica delle
salme”. Il nostro amato cantautore genovese ha citato Oswald de Andrade nella
sua celebre canzone (“illustre cugino de
Andrade”) e nel 1990 dichiara: “Tra i
molti poeti sudamericani che conosco, Oswald de Andrade è uno dei miei
preferiti, probabilmente per quel suo atteggiamento comportamentale oltre che
poetico totalmente libertario, per quel suo anticonformismo formale che lo fa
essere qualcosa di più e di meno e comunque di diverso da un poeta in senso
classico. E poi è dotato di un umorismo caustico difficilmente riscontrabile in
altri poeti dei primi del Novecento.” Sei a conoscenza di un possibile
rapporto tra De André e Darcy Ribeiro?
Giancorrado Barozzi: Quanto
ai rapporti tra Ribeiro e De André, non saprei dirti, non sapendo se vi siano
state delle prove di avvenuti contatti tra i due. Certo, a livello dei
contenuti, considerata anche la sottile ironia che aleggia sia nei romanzi di
Ribeiro che nei testi delle ballate di De André, appare agevole individuare un
filo rosso che leghi entrambi questi autori. Quel filo, io penso, è
rappresentato soprattutto dal «culto» del Brasile, dall’amore che essi ebbero
in comune per la cultura popolare e per la musica di quella nazione «meticcia».
La citazione dei
versi qui da te proposti proviene dalla canzone La domenica delle salme: un testo «sapienziale» composto da De
André poco dopo la caduta del Muro di Berlino e, credo, per la sua forza antagonistica
mai trasmesso dalla nostra tivù. Un testo che va, come lui stesso ha detto, «in direzione ostinata e contraria».
Mentre tutti quanti allora si affannavano a esaltare quell’evento come una
provvidenziale «fine della storia», lui intuì invece che, da allora in poi, nel
futuro d’Europa, col definitivo trionfo del «capitale», sarebbero rinati, uno
ad uno, tutti quegli spettri che con la fine della seconda guerra mondiale ci
si era illusi d’avere esorcizzato per sempre: il nazismo, l’antisemitismo, il
militarismo, i nazionalismi d’ogni sorta, quella forma d’egoismo statalista che
oggi ha preso il nome di «sovranismo», il conformismo dominante in campo
culturale e la spietata repressione da parte del potere nei confronti di tutte
le minoranze e i «bastian contrari» d’ogni specie.
Per queste ragioni De
André disse di sentirsi «cugino» del poeta brasiliano d’avanguardia Oswald de
Andrade, il quale aveva redatto ‒ negli anni Venti del Novecento ‒ un provocatorio Manifesto antropofago: dichiarazione poetica d’intenti che esaltava
la forza nativa della «cultura cannibale» degli indios, contrapponendola al
disagio della civiltà occidentale, urbana e massificata.
Mi sembra
significativo far notare che, pochi anni prima della composizione di questa
canzone di De André, sull’altra sponda dell’Atlantico, Darcy Ribeiro espresse,
con Utopia selvaggia, la medesima
necessità di rilanciare il messaggio di de Andrade, individuando, sia pure con
tutte le cautele del caso, nella cultura primigenia dei nativi amazzonici un
autentico modello da imitare per riuscire a salvare la «natura» e rigenerare in
modo radicale, la decadente vita sociale e politica del mondo cosiddetto
«civilizzato».
A.M.: Salutiamoci
con una citazione…
Giancorrado Barozzi: Ti
ringrazio per questa intervista e ti lascio, come mi hai chiesto, con una breve
citazione: l’ho tratta da un testo del XIX secolo molto amato da Ribeiro, La Società antica, dell’antropologo
evoluzionista Lewis Henri Morgan:
«Noi siamo debitori della nostra presente condizione, i cui mezzi di
sicurezza e di felicità si sono moltiplicati, alle lotte, alle sofferenze, agli
sforzi eroici ed al paziente lavoro dei nostri antenati barbari, e prima
ancora, selvaggi».
A.M.: Giancorrado
ti ringrazio per il tempo che hai dedicato per esplicare maggiormente la tua
opinione su Darcy Ribeiro e su “Utopia selvaggia”. Ti saluto, per agganciarmi
al concetto – oltre lo spazio ed il tempo − di felicità con le parole di John
Lennon: “Quando avevo cinque anni, mia
madre mi ripeteva sempre che la felicità è la chiave della vita. Quando andai a
scuola mi domandarono come volessi essere da grande. Io scrissi: felice. Mi
dissero che non avevo capito il compito, e io dissi loro che non avevano capito
la vita.”
Written by Alessia Mocci
Responsabile dell’Ufficio Stampa di
Negretto Editore
Info
Sito Negretto Editore
http://www.negrettoeditore.it/
Facebook Negretto Editore
https://www.facebook.com/negrettoeditoremantova/
Sito Fundação Darcy Ribeiro
https://www.fundar.org.br/
Intervista Darcy Ribeiro
http://www.scielo.br/scielo.php?pid=S0104-71831997000300158&script=sci_arttext
Fonte
http://oubliettemagazine.com/2019/04/23/intervista-di-alessia-mocci-a-giancorrado-barozzi-vi-presentiamo-utopia-selvaggia/
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